24-05-2018
A colloquio con Stefano Malorgio Segretario Generale, FILT CGIL LOMBARDIA
PREMESSA
Con questa intervista, la rivista Logistica Management ha voluto affrontare il tema da un punto di vista particolare: quello della gestione del lavoro e del personale operativo. Un tema che ricorre continuamente sulle nostre pagine, ma sempre per testimonianza delle aziende datrici. In quest’occasione invece abbiamo voluto far parlare una terza parte, quella del sindacato dei lavoratori, per avere anche il loro punto di vista su questa tematica di fondamentale importanza. Ed è per questo che vi proponiamo l’opinione di Stefano Malorgio, Segretario Generale di FILT CGIL Lombardia, con l’invito a leggerla e a riflettere sulle ragioni che hanno portato all’insorgere di determinate problematiche, che a nostro avviso, nascono da una sola e grave carenza: la questione del valore da attribuire al processo logistico. Finché tale valore viene disconosciuto, finché tutto ciò che riguarda la movimentazione dei materiali e la distribuzione verso i punti di consumo resta un mondo di puro servizio strumentale, privo di una sua riconoscibilità agli occhi dell’industria e del mercato, possono avere buon gioco le tendenze al risparmio a tutti i costi che poi producono storture nel mercato e ingiustizia fra le persone. Ed è non certo casuale che da questo punto di vista le opinioni dei datori di lavoro e del sindacato non siano poi tanto diverse.
La redazione di Editrice TeMi
Logistica Management: Qual è la vostra percezione del mercato logistica: si può dire che vi sia una distinzione fra coloro che operano nel rispetto della legalità, e coloro che invece non lo fanno?
Stefano Malorgio: Non esattamente. Nel settore non percepiamo situazioni estreme, di bianco o nero, piuttosto numerose gradazioni di grigio. La logistica si può dire che sia un settore “diversamente legale”, perché l’ambito della legalità viene stirato a dismisura per poter sfruttare ogni recondita piega e ogni possibilità anche estrema di ottenere un risparmio economico. Si può dire che le aziende agiscano nell’illegalità, solo se definiamo che cosa si intende per illegalità: e nella logistica questo non è facile. Possiamo escludere dunque, per la nostra esperienza, sia realtà totalmente luminose – difficilmente vedo aziende che, dall’inizio alla fine, applichino forme di completo rispetto delle condizioni contrattuali e di equità nel lavoro delle persone - sia casi di completa oscurità. Abbiamo in generale un rispetto delle normative, ma applicato in modo da sfruttare tutti i vantaggi che la legge consente e prescindendo generalmente da quello che può essere l’impatto sulle condizioni dei lavoratori.
LM: Come e perché ci troviamo in questa situazione?
SM: Siamo arrivati qui per effetto dell’esternalizzazione dei processi produttivi, un fenomeno in netta crescita nel settore della logistica. Di per sé l’intento è lodevole e può dare risultati molto positivi in termini di efficienza, ma questo meccanismo ha anche avuto la conseguenza di produrre, nella parte più bassa del ciclo produttivo - ancora tipicamente labour-intensive - una situazione di concorrenza basata esclusivamente sul costo del lavoro. Per eccellere sul mercato utilizzando quest’unica arma, si è tentato di tutto. Come ad esempio il ricorso dilagante alle cooperative. Questa forma societaria, di antica tradizione e largamente utilizzata nel passato, è risultata una di quelle che meglio si prestavano a questo tipo di concorrenza, anche se questo modo di intenderla ha portato allo snaturamento del suo significato originario. Le cooperative infatti sono diventate sostanzialmente aziende, di dimensioni anche molto grandi. Abbiamo consorzi di cooperative che danno lavoro a migliaia di soci. La terziarizzazione, che in una prima fase e nelle sue intenzioni generali è positiva, condotta in questi termini si è nel tempo trasformata in una condizione di non governo del ciclo produttivo. L’esecuzione del servizio finisce per sfuggire alla visibilità del committente iniziale, soprattutto nei casi in cui un consorzio appaltatore abbia poi al suo interno altre cooperative che a loro volta possono appaltare a chi, alla fine, svolgerà effettivamente il lavoro. Ed è la ragione per cui diverse aziende stanno intraprendendo, faticosamente, il percorso inverso, chiedendo il nostro supporto per mettere in campo meccanismi di internalizzazione: perché al punto in cui erano arrivati, non erano più sostanzialmente in grado di gestire determinati processi.
LM: Ma il contratto di lavoro cooperativo non è stato via via equiparato ad un CCNL, quindi sostanzialmente annullando questo risparmio di costi inizialmente consentito? Non è così?
SM: No, le cose stanno diversamente. Innanzitutto, le cooperative non hanno sottoscritto questo nuovo contratto, come non avevano sottoscritto il precedente. Il contratto proposto infatti è un cosiddetto contratto di filiera: quindi, le aziende committenti dovrebbero applicarlo alle cooperative che lavorano per loro, e queste alla catena di appalti che a loro volta gestiscono. In realtà, questo non avviene: perché spesso tra l'azienda committente e colui che svolge il lavoro in appalto, si instaura una diatriba di natura economica, perché l’appaltatore richiede un aumento tariffario che gli consenta di applicare il contratto a sua volta verso chi svolge altri servizi al di sotto di lui. Dunque, oggi esiste ancora una condizione di grande differenza di trattamento economico fra dipendenti diretti delle aziende e dipendenti delle cooperative, sul piano contrattuale. Il secondo elemento di differenza riguarda le modalità di lavoro. In poche cooperative infatti c'è la mensilizzazione del salario. Più spesso, il compenso è legato alle ore di prestazione, e questo comporta enormi differenze di trattamento, che si aggiungono all’assenza delle garanzie di base del lavoro dipendente, come i giorni di malattia.
Dalla parte del committente, la flessibilità è un elemento positivo, soprattutto quando viene messa in relazione alla necessità di coprire picchi di lavoro stagionali o periodici. Va bene. Ma quando questa flessibilità non ha un inquadramento generale, che metta in evidenza anche i diritti della persona, oltre che i ritmi di lavoro del committente, si va oltre il significato del termine. Si scivola nella precarietà e arbitrio nell'utilizzo delle persone. E si genera un delta enorme fra chi lavora dentro all'azienda committente e chi svolge il servizio in quanto esecutore dell’appalto. Ma non finisce qui, purtroppo. Con cadenza biennale, può succedere che la cooperativa esecutrice del servizio venga sostituita con un’altra cooperativa. E questo perché mediamente ogni due anni le persone dovrebbero passare a livelli di anzianità più elevati, con compensi superiori. Per evitare questo aggravio di costi, si effettua un cambio di appalto, che spesso è fasullo perché magari la cooperativa rientra sempre nello stesso consorzio appaltante, tale per cui se i lavoratori passano da una cooperativa all'altra gli scatti non sono riconosciuti. E con i compensi orari si riparte da zero.
Secondo grande tema, il pagamento dell'Iva. Quando queste realtà chiudono per cambio di appalto, l'Iva può rimanere un elemento inevaso. Abbiamo la responsabilità in solido da parte del committente sui trattamenti retributivi e contributivi: ma non sul pagamento dell'Iva. Ecco che ognuno di questi elementi, consentito dalle leggi in vigore, diventa vantaggio competitivo e beneficio sul piano tariffario offerto al committente. Ma, ripeto: è vera legalità?
PREMESSA
Con questa intervista, la rivista Logistica Management ha voluto affrontare il tema da un punto di vista particolare: quello della gestione del lavoro e del personale operativo. Un tema che ricorre continuamente sulle nostre pagine, ma sempre per testimonianza delle aziende datrici. In quest’occasione invece abbiamo voluto far parlare una terza parte, quella del sindacato dei lavoratori, per avere anche il loro punto di vista su questa tematica di fondamentale importanza. Ed è per questo che vi proponiamo l’opinione di Stefano Malorgio, Segretario Generale di FILT CGIL Lombardia, con l’invito a leggerla e a riflettere sulle ragioni che hanno portato all’insorgere di determinate problematiche, che a nostro avviso, nascono da una sola e grave carenza: la questione del valore da attribuire al processo logistico. Finché tale valore viene disconosciuto, finché tutto ciò che riguarda la movimentazione dei materiali e la distribuzione verso i punti di consumo resta un mondo di puro servizio strumentale, privo di una sua riconoscibilità agli occhi dell’industria e del mercato, possono avere buon gioco le tendenze al risparmio a tutti i costi che poi producono storture nel mercato e ingiustizia fra le persone. Ed è non certo casuale che da questo punto di vista le opinioni dei datori di lavoro e del sindacato non siano poi tanto diverse.
La redazione di Editrice TeMi
Logistica Management: Qual è la vostra percezione del mercato logistica: si può dire che vi sia una distinzione fra coloro che operano nel rispetto della legalità, e coloro che invece non lo fanno?
Stefano Malorgio: Non esattamente. Nel settore non percepiamo situazioni estreme, di bianco o nero, piuttosto numerose gradazioni di grigio. La logistica si può dire che sia un settore “diversamente legale”, perché l’ambito della legalità viene stirato a dismisura per poter sfruttare ogni recondita piega e ogni possibilità anche estrema di ottenere un risparmio economico. Si può dire che le aziende agiscano nell’illegalità, solo se definiamo che cosa si intende per illegalità: e nella logistica questo non è facile. Possiamo escludere dunque, per la nostra esperienza, sia realtà totalmente luminose – difficilmente vedo aziende che, dall’inizio alla fine, applichino forme di completo rispetto delle condizioni contrattuali e di equità nel lavoro delle persone - sia casi di completa oscurità. Abbiamo in generale un rispetto delle normative, ma applicato in modo da sfruttare tutti i vantaggi che la legge consente e prescindendo generalmente da quello che può essere l’impatto sulle condizioni dei lavoratori.
LM: Come e perché ci troviamo in questa situazione?
SM: Siamo arrivati qui per effetto dell’esternalizzazione dei processi produttivi, un fenomeno in netta crescita nel settore della logistica. Di per sé l’intento è lodevole e può dare risultati molto positivi in termini di efficienza, ma questo meccanismo ha anche avuto la conseguenza di produrre, nella parte più bassa del ciclo produttivo - ancora tipicamente labour-intensive - una situazione di concorrenza basata esclusivamente sul costo del lavoro. Per eccellere sul mercato utilizzando quest’unica arma, si è tentato di tutto. Come ad esempio il ricorso dilagante alle cooperative. Questa forma societaria, di antica tradizione e largamente utilizzata nel passato, è risultata una di quelle che meglio si prestavano a questo tipo di concorrenza, anche se questo modo di intenderla ha portato allo snaturamento del suo significato originario. Le cooperative infatti sono diventate sostanzialmente aziende, di dimensioni anche molto grandi. Abbiamo consorzi di cooperative che danno lavoro a migliaia di soci. La terziarizzazione, che in una prima fase e nelle sue intenzioni generali è positiva, condotta in questi termini si è nel tempo trasformata in una condizione di non governo del ciclo produttivo. L’esecuzione del servizio finisce per sfuggire alla visibilità del committente iniziale, soprattutto nei casi in cui un consorzio appaltatore abbia poi al suo interno altre cooperative che a loro volta possono appaltare a chi, alla fine, svolgerà effettivamente il lavoro. Ed è la ragione per cui diverse aziende stanno intraprendendo, faticosamente, il percorso inverso, chiedendo il nostro supporto per mettere in campo meccanismi di internalizzazione: perché al punto in cui erano arrivati, non erano più sostanzialmente in grado di gestire determinati processi.
LM: Ma il contratto di lavoro cooperativo non è stato via via equiparato ad un CCNL, quindi sostanzialmente annullando questo risparmio di costi inizialmente consentito? Non è così?
SM: No, le cose stanno diversamente. Innanzitutto, le cooperative non hanno sottoscritto questo nuovo contratto, come non avevano sottoscritto il precedente. Il contratto proposto infatti è un cosiddetto contratto di filiera: quindi, le aziende committenti dovrebbero applicarlo alle cooperative che lavorano per loro, e queste alla catena di appalti che a loro volta gestiscono. In realtà, questo non avviene: perché spesso tra l'azienda committente e colui che svolge il lavoro in appalto, si instaura una diatriba di natura economica, perché l’appaltatore richiede un aumento tariffario che gli consenta di applicare il contratto a sua volta verso chi svolge altri servizi al di sotto di lui. Dunque, oggi esiste ancora una condizione di grande differenza di trattamento economico fra dipendenti diretti delle aziende e dipendenti delle cooperative, sul piano contrattuale. Il secondo elemento di differenza riguarda le modalità di lavoro. In poche cooperative infatti c'è la mensilizzazione del salario. Più spesso, il compenso è legato alle ore di prestazione, e questo comporta enormi differenze di trattamento, che si aggiungono all’assenza delle garanzie di base del lavoro dipendente, come i giorni di malattia.
Dalla parte del committente, la flessibilità è un elemento positivo, soprattutto quando viene messa in relazione alla necessità di coprire picchi di lavoro stagionali o periodici. Va bene. Ma quando questa flessibilità non ha un inquadramento generale, che metta in evidenza anche i diritti della persona, oltre che i ritmi di lavoro del committente, si va oltre il significato del termine. Si scivola nella precarietà e arbitrio nell'utilizzo delle persone. E si genera un delta enorme fra chi lavora dentro all'azienda committente e chi svolge il servizio in quanto esecutore dell’appalto. Ma non finisce qui, purtroppo. Con cadenza biennale, può succedere che la cooperativa esecutrice del servizio venga sostituita con un’altra cooperativa. E questo perché mediamente ogni due anni le persone dovrebbero passare a livelli di anzianità più elevati, con compensi superiori. Per evitare questo aggravio di costi, si effettua un cambio di appalto, che spesso è fasullo perché magari la cooperativa rientra sempre nello stesso consorzio appaltante, tale per cui se i lavoratori passano da una cooperativa all'altra gli scatti non sono riconosciuti. E con i compensi orari si riparte da zero.
Secondo grande tema, il pagamento dell'Iva. Quando queste realtà chiudono per cambio di appalto, l'Iva può rimanere un elemento inevaso. Abbiamo la responsabilità in solido da parte del committente sui trattamenti retributivi e contributivi: ma non sul pagamento dell'Iva. Ecco che ognuno di questi elementi, consentito dalle leggi in vigore, diventa vantaggio competitivo e beneficio sul piano tariffario offerto al committente. Ma, ripeto: è vera legalità?
LM: Ha detto prima che le cooperative non hanno firmato il contratto nazionale di lavoro. Che cosa si intende? Chi sono le cooperative? Hanno una rappresentanza unica?
SM: In Italia vi sono tre centrali cooperative: AGCI, Confcooperative e Legacoop. Alle centrali cooperative il compito di prendere decisioni unitarie, tra cui anche quello della sottoscrizione dei contratti di lavoro. Tuttavia queste realtà non hanno una grande rappresentanza nel settore. Rimane il problema degli aumenti tariffari: secondo le centrali cooperative, le committenze non li riconoscerebbero, sostanzialmente impedendo alle cooperative di adeguare a loro volta le loro tariffe. Noi, come CGIL, siamo in palese disaccordo con questa situazione e quando organizziamo scioperi di protesta, è per portare avanti anche questa battaglia, verso un’applicazione del contratto in grado di portare più giustizia lungo tutta la filiera. Fino a quando non arriveremo a questo risultato, l’assenza di un contratto condiviso genererà solo condizioni disomogenee, e dunque arbitrio e ingiustizia.
LM: Ha citato il ricorso allo sciopero. Come evitare che sia considerata un’arma per vincere battaglie fra lavoratori, perdendo nel frattempo la guerra del business e del mercato?
SM: Lo sciopero è un diritto del lavoratore, ma serve per combattere le guerre giuste, non le battaglie sbagliate. Ora, questa idea non appartiene equamente a tutti i tipi di sindacati, perché non tutti i sindacati sono uguali. Da un lato, abbiamo le grandi organizzazioni confederali, CGIL – CISL – UIL, con una lunga storia alle spalle e una mentalità forgiata da questa tradizione. Dall’altro però in Italia abbiamo numerosissime altre organizzazioni autonome con le proprie finalità e caratteristiche, anche molto diverse fra loro. Che cosa succede nella realtà? Dove si lascia crescere, anche per le ragioni dette prima, la giungla degli appalti e la concorrenza fra cooperative o fra consorzi, anche le forze sindacali risultano essere conflittuali e si deve ricorrere spesso allo strumento dello sciopero. In questo ambito crescono le forme di protesta fuori controllo, che alle volte sfociano in scontri anche cruenti. Un ambito che diventa molto opaco, in cui prosperano i sindacati autonomi e le particolari convergenze tra questi e le aziende.
Esiste poi un altro aspetto che si connette anche al dibattito pubblico più generale. I lavoratori stranieri sono quelli che costituiscono per numero l’ossatura del sistema dei sub appalti. In un quadro come quello che ho provato a descrivere si rischia di perpetuare una divisione tra etnie senza alcuna integrazione, con il pericolo di determinare un problema anche sociale. Le comunità infatti finiscono per rimanere separate, addirittura ciascuna con un proprio sindacato autonomo di riferimento e con un sistema di assunzioni che perpetua questo meccanismo. Non solo. Dentro le stesse comunità si instaurano gerarchie che somigliano al caporalato. In alcuni casi i cambi di appalto sono stati occasione di scontro tra comunità diverse e dentro le stesse comunità, sopratutto quando l’azienda subentrante ha provato a smontare alcuni meccanismi cercando di riprendere il controllo della produzione. Ma il problema sta sempre a monte. Come era stata scelta questa cooperativa? In quali termini era stato impostato l’appalto? Ci lasci dire: qualsiasi committente oggi può sapere con assoluta chiarezza chi è il suo interlocutore. I consorzi, dicevo, non sono molti, e le loro modalità di lavoro sono universalmente note. E, come si suol dire, chi semina vento, non potrà che raccogliere tempesta.
Nel momento in cui un cliente decide di avvalersi di un determinato fornitore, sa con chiarezza quali potrebbero essere le conseguenze. Quello che nell’immediato sembra un vantaggio economico, nel giro di poco tempo può diventare un trend negativo molto difficile da fermare. Insomma, dall’esternalizzazione spinta è nato un mondo molto complicato e si è lasciato per troppo tempo che le cose andassero avanti senza nessun tipo di controllo.
SM: In Italia vi sono tre centrali cooperative: AGCI, Confcooperative e Legacoop. Alle centrali cooperative il compito di prendere decisioni unitarie, tra cui anche quello della sottoscrizione dei contratti di lavoro. Tuttavia queste realtà non hanno una grande rappresentanza nel settore. Rimane il problema degli aumenti tariffari: secondo le centrali cooperative, le committenze non li riconoscerebbero, sostanzialmente impedendo alle cooperative di adeguare a loro volta le loro tariffe. Noi, come CGIL, siamo in palese disaccordo con questa situazione e quando organizziamo scioperi di protesta, è per portare avanti anche questa battaglia, verso un’applicazione del contratto in grado di portare più giustizia lungo tutta la filiera. Fino a quando non arriveremo a questo risultato, l’assenza di un contratto condiviso genererà solo condizioni disomogenee, e dunque arbitrio e ingiustizia.
LM: Ha citato il ricorso allo sciopero. Come evitare che sia considerata un’arma per vincere battaglie fra lavoratori, perdendo nel frattempo la guerra del business e del mercato?
SM: Lo sciopero è un diritto del lavoratore, ma serve per combattere le guerre giuste, non le battaglie sbagliate. Ora, questa idea non appartiene equamente a tutti i tipi di sindacati, perché non tutti i sindacati sono uguali. Da un lato, abbiamo le grandi organizzazioni confederali, CGIL – CISL – UIL, con una lunga storia alle spalle e una mentalità forgiata da questa tradizione. Dall’altro però in Italia abbiamo numerosissime altre organizzazioni autonome con le proprie finalità e caratteristiche, anche molto diverse fra loro. Che cosa succede nella realtà? Dove si lascia crescere, anche per le ragioni dette prima, la giungla degli appalti e la concorrenza fra cooperative o fra consorzi, anche le forze sindacali risultano essere conflittuali e si deve ricorrere spesso allo strumento dello sciopero. In questo ambito crescono le forme di protesta fuori controllo, che alle volte sfociano in scontri anche cruenti. Un ambito che diventa molto opaco, in cui prosperano i sindacati autonomi e le particolari convergenze tra questi e le aziende.
Esiste poi un altro aspetto che si connette anche al dibattito pubblico più generale. I lavoratori stranieri sono quelli che costituiscono per numero l’ossatura del sistema dei sub appalti. In un quadro come quello che ho provato a descrivere si rischia di perpetuare una divisione tra etnie senza alcuna integrazione, con il pericolo di determinare un problema anche sociale. Le comunità infatti finiscono per rimanere separate, addirittura ciascuna con un proprio sindacato autonomo di riferimento e con un sistema di assunzioni che perpetua questo meccanismo. Non solo. Dentro le stesse comunità si instaurano gerarchie che somigliano al caporalato. In alcuni casi i cambi di appalto sono stati occasione di scontro tra comunità diverse e dentro le stesse comunità, sopratutto quando l’azienda subentrante ha provato a smontare alcuni meccanismi cercando di riprendere il controllo della produzione. Ma il problema sta sempre a monte. Come era stata scelta questa cooperativa? In quali termini era stato impostato l’appalto? Ci lasci dire: qualsiasi committente oggi può sapere con assoluta chiarezza chi è il suo interlocutore. I consorzi, dicevo, non sono molti, e le loro modalità di lavoro sono universalmente note. E, come si suol dire, chi semina vento, non potrà che raccogliere tempesta.
Nel momento in cui un cliente decide di avvalersi di un determinato fornitore, sa con chiarezza quali potrebbero essere le conseguenze. Quello che nell’immediato sembra un vantaggio economico, nel giro di poco tempo può diventare un trend negativo molto difficile da fermare. Insomma, dall’esternalizzazione spinta è nato un mondo molto complicato e si è lasciato per troppo tempo che le cose andassero avanti senza nessun tipo di controllo.
LM: Secondo voi dunque è possibile intervenire per evitare queste storture e migliorare tutto il settore della logistica, salvando gli aspetti positivi dell’outsourcing?
SM: Sì, assolutamente. Innanzitutto, riteniamo che serva un nuovo quadro normativo tale da contrastare determinate possibilità pratiche. E per cominciare, come FILT CGIL Milano e Lombardia abbiamo elaborato un piano in cinque proposte concrete, alcune delle quali relative a modifiche normative, altre invece frutto di nostri progetti di ricerca sul settore. Vediamole nel dettaglio. La prima proposta riguarda la reintroduzione della responsabilità in solido per il pagamento dell'Iva, stralciata ai tempi dal governo Letta.
Oggi la committenza non è obbligata a rispondere in solido per l'Iva non versata da parte dell'appaltatore, e questo consente le irregolarità dette prima come l’avvicendamento periodico delle cooperative e una consistente evasione fiscale. Con questo vincolo di responsabilità solidale sull’Iva e sui tributi locali, si otterrebbero due benefici immediati: maggior gettito fiscale e miglior verifica sulla qualità dei fornitori da parte delle committenze. La seconda proposta riguarda la possibilità di distinguere le cooperative “sane” da quelle “malate”. Va infatti ripetuto che la cooperazione non è tutta uguale. Ci sono cooperative autentiche nelle quali i soci hanno accesso a livelli molto alti di prestazioni, talvolta anche di retribuzioni. E c’è un parametro che consente di individuare subito se una qualsiasi realtà segue un autentico spirito cooperativo o lo professa solo di facciata: il numero delle deleghe nelle assemblee dei soci. In una cooperativa, i soci riuniti in assemblea hanno potere deliberativo su tutto, anche sulle condizioni contrattuali; e come in qualsiasi assemblea, i soci possono ricevere deleghe da altri soci impossibilitati a partecipare. In una cooperativa fasulla, non c’è limite al numero delle deleghe. È evidente che se un socio ha in mano dieci, quaranta, cento deleghe, è sostanzialmente un dirigente che decide per tutti gli altri. Una delle possibilità è che ogni socio possa detenere al massimo cinque deleghe in assemblea. Il limite numerico all’accumulo di deleghe per socio è un elemento che parla a favore dell’autenticità della natura cooperativa. La terza proposta riguarda la questione della rappresentanza, a cui abbiamo accennato prima in relazione allo strumento dello sciopero. È un altro tema tanto complicato quanto centrale nella questione del lavoro, da tempo sollevato dai sindacati nazionali.
Oggi in Italia qualunque associazione datoriale e qualunque sindacato possono sottoscrivere contratti con valenza nazionale. Ne deriva che la maggior parte dei contratti sono firmati da sindacati inconsistenti e da associazioni datoriali inconsistenti. E questi magari stabiliscono condizioni altamente peggiorative per i lavoratori, comportando un continuo dumping nel trattamento delle persone. Allo stato attuale solo il 30% dei contratti nazionali in Italia sono stati sottoscritti dalle associazioni sindacali CGIL-CISL-UIL. Per evitare questa mancanza di controllo noi proponiamo una legge che certifichi la rappresentanza reale di questi sindacati e di queste associazioni datoriali, che sia vincolante per poter sottoscrivere contratti validi per tutti a livello nazionale. Da questo sbarramento potrebbe derivare l’esclusione di quelle realtà che non hanno una reale consistenza e anche l’introduzione di modello di relazione certificato fra aziende e realtà sindacali. Questo diventerebbe un altro importante elemento regolatorio della concorrenza sul lavoro. Veniamo poi a progetti più complessi, ma che secondo noi hanno pari importanza per impostare il lavoro logistico su basi regolatorie più sostenibili e meglio orientate allo sviluppo futuro. Provate a vedere le aree a sud di Milano, intorno a Lodi o Pavia: dove un tempo c’erano campi e cascine, oggi troviamo i grandi centri logistici. Sono queste le nuove fabbriche: nelle prime ore del mattino vediamo entrare migliaia di persone, come detto per lo più stranieri. Ma nessuno sa di preciso come arrivino alle porte del magazzino, con quali mezzi di trasporto, su quali strade, dove abitino e chi si occupi delle loro famiglie.
Questo enorme sviluppo della logistica sta avvenendo così, spontaneamente e senza controllo. I magazzini sono certamente sorti nel rispetto delle norme locali, con le dovute opere compensative, ma non si muovono all’interno di un piano generale di governo del territorio, e questo a sua volta non può riguardare affatto solo la parte edilizia e la gestione del suolo. Servono invece politiche complete che riguardino la disponibilità abitativa, la qualità delle infrastrutture, tutti gli aspetti sociali che queste persone richiamano. In caso contrario, il rischio è che dalla mancanza di controllo scaturisca una reale anarchia, nella quale, come accennavo sopra, i lavoratori avranno come unico riferimento – nel bene e nel male – solo le proprie comunità nazionali. Non arriveranno mai ad integrarsi con le nostre strutture e soprattutto a riconoscere la nostra cultura e il valore della nostra cittadinanza. Avremo un corpo sempre più separato, ma un corpo separato che controlla completamente il nostro ciclo produttivo. Su questo tema il nostro sforzo è rivolto principalmente alla Regione Lombardia, che ancora non ha fatto passi concreti in questo senso, nonostante detenga il 35% della logistica italiana e svolga un ruolo strategico per tutta Europa. Non si può continuare a gestire una tale risorsa in una situazione di trascuratezza normativa: serve un piano completo di governo del territorio che includa la logistica come risorsa centrale, affinché questa possa svilupparsi pienamente anche nel futuro a tutto vantaggio della regione e della nazione.
Ultimo tema rilevante è quello dei dati. Tutte le attività lavorative producono dati; ma i dati possono essere utilizzati anche per progettare nuove forme di automazione, che tenderanno a rendere superfluo un processo e chi lo esegue. Noi invece pensiamo che si possa lavorare su questo tema, per poterne cogliere tutte le opportunità senza rassegnarsi a perdere professionalità importanti. Da un lato, contestiamo una sorta di “strapotere” della tecnologia: come sindacato ci piacerebbe essere presenti dove la tecnologia viene autorizzata o programmata per gestire, a volte in modo coercitivo, la vita delle persone. Le condizioni dei lavoratori non possono essere una mera derivata da un sistema di efficientamento aziendale, incapace di tenere conto delle esigenze della persone. Dall’altro, vorremmo dare una risposta diversa alla domanda che da tempo ci si pone: quando l’automazione dei magazzini sarà completa, che cosa ne sarà dei lavoratori? Delle migliaia di persone che oggi abbiamo nei nostri magazzini? Il nostro intento è dunque quello di capire sempre meglio la tecnologia, cercando di lavorare per tempo, altrimenti intere realtà locali rischieranno di rimanere travolte da questo mutamento. È evidente il legame con lo scenario descritto prima. Non ci accontentiamo delle risposte di lungo termine: prima che i figli diventino tutti ingegneri e progettisti dei nuovi sistemi di automazione, avremo un esercito di genitori disoccupati. È oggi che il lavoratore alimenta con i propri gesti e le proprie scelte i meccanismi di prossima automatizzazione; ecco perché oggi è il momento di sforzarsi di capire quali forme potrà prendere il lavoro del prossimo futuro, per definire nuovi ruoli che non escludano del tutto la persona. Anche in questo caso riteniamo che lo spontaneismo totale sia nemico di uno sviluppo veramente sostenibile.
SM: Sì, assolutamente. Innanzitutto, riteniamo che serva un nuovo quadro normativo tale da contrastare determinate possibilità pratiche. E per cominciare, come FILT CGIL Milano e Lombardia abbiamo elaborato un piano in cinque proposte concrete, alcune delle quali relative a modifiche normative, altre invece frutto di nostri progetti di ricerca sul settore. Vediamole nel dettaglio. La prima proposta riguarda la reintroduzione della responsabilità in solido per il pagamento dell'Iva, stralciata ai tempi dal governo Letta.
Oggi la committenza non è obbligata a rispondere in solido per l'Iva non versata da parte dell'appaltatore, e questo consente le irregolarità dette prima come l’avvicendamento periodico delle cooperative e una consistente evasione fiscale. Con questo vincolo di responsabilità solidale sull’Iva e sui tributi locali, si otterrebbero due benefici immediati: maggior gettito fiscale e miglior verifica sulla qualità dei fornitori da parte delle committenze. La seconda proposta riguarda la possibilità di distinguere le cooperative “sane” da quelle “malate”. Va infatti ripetuto che la cooperazione non è tutta uguale. Ci sono cooperative autentiche nelle quali i soci hanno accesso a livelli molto alti di prestazioni, talvolta anche di retribuzioni. E c’è un parametro che consente di individuare subito se una qualsiasi realtà segue un autentico spirito cooperativo o lo professa solo di facciata: il numero delle deleghe nelle assemblee dei soci. In una cooperativa, i soci riuniti in assemblea hanno potere deliberativo su tutto, anche sulle condizioni contrattuali; e come in qualsiasi assemblea, i soci possono ricevere deleghe da altri soci impossibilitati a partecipare. In una cooperativa fasulla, non c’è limite al numero delle deleghe. È evidente che se un socio ha in mano dieci, quaranta, cento deleghe, è sostanzialmente un dirigente che decide per tutti gli altri. Una delle possibilità è che ogni socio possa detenere al massimo cinque deleghe in assemblea. Il limite numerico all’accumulo di deleghe per socio è un elemento che parla a favore dell’autenticità della natura cooperativa. La terza proposta riguarda la questione della rappresentanza, a cui abbiamo accennato prima in relazione allo strumento dello sciopero. È un altro tema tanto complicato quanto centrale nella questione del lavoro, da tempo sollevato dai sindacati nazionali.
Oggi in Italia qualunque associazione datoriale e qualunque sindacato possono sottoscrivere contratti con valenza nazionale. Ne deriva che la maggior parte dei contratti sono firmati da sindacati inconsistenti e da associazioni datoriali inconsistenti. E questi magari stabiliscono condizioni altamente peggiorative per i lavoratori, comportando un continuo dumping nel trattamento delle persone. Allo stato attuale solo il 30% dei contratti nazionali in Italia sono stati sottoscritti dalle associazioni sindacali CGIL-CISL-UIL. Per evitare questa mancanza di controllo noi proponiamo una legge che certifichi la rappresentanza reale di questi sindacati e di queste associazioni datoriali, che sia vincolante per poter sottoscrivere contratti validi per tutti a livello nazionale. Da questo sbarramento potrebbe derivare l’esclusione di quelle realtà che non hanno una reale consistenza e anche l’introduzione di modello di relazione certificato fra aziende e realtà sindacali. Questo diventerebbe un altro importante elemento regolatorio della concorrenza sul lavoro. Veniamo poi a progetti più complessi, ma che secondo noi hanno pari importanza per impostare il lavoro logistico su basi regolatorie più sostenibili e meglio orientate allo sviluppo futuro. Provate a vedere le aree a sud di Milano, intorno a Lodi o Pavia: dove un tempo c’erano campi e cascine, oggi troviamo i grandi centri logistici. Sono queste le nuove fabbriche: nelle prime ore del mattino vediamo entrare migliaia di persone, come detto per lo più stranieri. Ma nessuno sa di preciso come arrivino alle porte del magazzino, con quali mezzi di trasporto, su quali strade, dove abitino e chi si occupi delle loro famiglie.
Questo enorme sviluppo della logistica sta avvenendo così, spontaneamente e senza controllo. I magazzini sono certamente sorti nel rispetto delle norme locali, con le dovute opere compensative, ma non si muovono all’interno di un piano generale di governo del territorio, e questo a sua volta non può riguardare affatto solo la parte edilizia e la gestione del suolo. Servono invece politiche complete che riguardino la disponibilità abitativa, la qualità delle infrastrutture, tutti gli aspetti sociali che queste persone richiamano. In caso contrario, il rischio è che dalla mancanza di controllo scaturisca una reale anarchia, nella quale, come accennavo sopra, i lavoratori avranno come unico riferimento – nel bene e nel male – solo le proprie comunità nazionali. Non arriveranno mai ad integrarsi con le nostre strutture e soprattutto a riconoscere la nostra cultura e il valore della nostra cittadinanza. Avremo un corpo sempre più separato, ma un corpo separato che controlla completamente il nostro ciclo produttivo. Su questo tema il nostro sforzo è rivolto principalmente alla Regione Lombardia, che ancora non ha fatto passi concreti in questo senso, nonostante detenga il 35% della logistica italiana e svolga un ruolo strategico per tutta Europa. Non si può continuare a gestire una tale risorsa in una situazione di trascuratezza normativa: serve un piano completo di governo del territorio che includa la logistica come risorsa centrale, affinché questa possa svilupparsi pienamente anche nel futuro a tutto vantaggio della regione e della nazione.
Ultimo tema rilevante è quello dei dati. Tutte le attività lavorative producono dati; ma i dati possono essere utilizzati anche per progettare nuove forme di automazione, che tenderanno a rendere superfluo un processo e chi lo esegue. Noi invece pensiamo che si possa lavorare su questo tema, per poterne cogliere tutte le opportunità senza rassegnarsi a perdere professionalità importanti. Da un lato, contestiamo una sorta di “strapotere” della tecnologia: come sindacato ci piacerebbe essere presenti dove la tecnologia viene autorizzata o programmata per gestire, a volte in modo coercitivo, la vita delle persone. Le condizioni dei lavoratori non possono essere una mera derivata da un sistema di efficientamento aziendale, incapace di tenere conto delle esigenze della persone. Dall’altro, vorremmo dare una risposta diversa alla domanda che da tempo ci si pone: quando l’automazione dei magazzini sarà completa, che cosa ne sarà dei lavoratori? Delle migliaia di persone che oggi abbiamo nei nostri magazzini? Il nostro intento è dunque quello di capire sempre meglio la tecnologia, cercando di lavorare per tempo, altrimenti intere realtà locali rischieranno di rimanere travolte da questo mutamento. È evidente il legame con lo scenario descritto prima. Non ci accontentiamo delle risposte di lungo termine: prima che i figli diventino tutti ingegneri e progettisti dei nuovi sistemi di automazione, avremo un esercito di genitori disoccupati. È oggi che il lavoratore alimenta con i propri gesti e le proprie scelte i meccanismi di prossima automatizzazione; ecco perché oggi è il momento di sforzarsi di capire quali forme potrà prendere il lavoro del prossimo futuro, per definire nuovi ruoli che non escludano del tutto la persona. Anche in questo caso riteniamo che lo spontaneismo totale sia nemico di uno sviluppo veramente sostenibile.
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02/02/2016
22/02/2016
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30/11/2018
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