di Fulvio Quattroccolo
Anche se della questione della privatizzazione delle Ferrovie dello Stato ogni tanto si arriva a parlare anche sulla stampa nazionale, in realtà ben poco viene detto su quali sono le reali partite che si stanno giocando su questo tema.
Alla base dell’iniziativa c’è la necessità da parte dello Stato, nel quadro delle azioni di risanamento economico richiesto all’Italia dall’Europa, di “fare cassa”, cedendo appunto a privati una quota, pare fino al 40%, delle Ferrovie Italiane dello Stato, previa quotazione in Borsa.
Ma da questo punto di partenza in poi, la confusione regna sovrana.
Anche soltanto per definire quale sia l’oggetto della vendita: Ferrovie dello Stato sono da alcuni anni una Holding che controlla un gran numero di Società, che operano in settori che vanno dall’esercizio del traffico (Trenitalia ad esempio), all’ingegneria (Italferr), alla gestione della rete (RFI) e molti altri, in Italia e anche all’estero. Ognuna di queste Società ha differenti bilanci, differenti redditività, situazioni contabili diverse, e non tutte le loro attività possono essere indirizzate alla produzione di utili come invece sarebbe dovuto agli investitori privati.
Inoltre agli obiettivi legati alla finanza statale, privilegiati dal Ministero dell’Economia che è l’azionista di riferimento del Gruppo FSI, si sovrappongono gli obiettivi di servizio che il sistema ferroviario deve fornire all’economia del Paese, sui quali ha competenza il Ministero Infrastrutture e Trasporti.
L’opportunità di attuare una privatizzazione del Gruppo FSI come entità unica, sostenuta dal MEF, dall’AD di FSI e dal Sindacato, è però fortemente contestata dalle Associazioni degli utenti, da molti tecnici del settore, dal Presidente del CdA di FSI, e ultimamente in modo chiaro anche dal MIT guidato dal Ministro Delrio.
Sullo sfondo, incombono le Direttive della Comunità Europea per lo spazio unico ferroviario nel Continente, che vanno sempre più in direzione dell’obbligo di separazione totale del Gestore della rete dalle Società di produzione dei servizi.
Questi contrasti, insieme alla effettiva difficoltà che è emersa durante gli studi per creare le condizioni giuridiche necessarie e quindi collocare sul mercato un’entità economica del calibro delle Ferrovie Italiane, hanno portato ad una fase di stallo che dura da parecchi mesi e sulla quale ormai molti chiedono che si apra una discussione alla luce del sole, ovvero nelle sedi istituzionali e in Parlamento.
Il punto centrale che può permettere, dal mio punto di vista, di sbloccare la situazione resta quello della separazione del Gestore della Rete (RFI) dalle altre Società operative del Gruppo FSI. Per ragioni tecnico-giuridiche, economiche, ed anche etiche, che in un’ampia discussione istituzionale non potranno non avere un peso determinante.
La privatizzazione della Rete, con la conseguente necessità di produrre utili da distribuire agli azionisti privati, è assolutamente incompatibile con la sua funzione fondamentale che è fornire al minor costo e con la massima efficienza l’accesso all’infrastruttura agli operatori dei servizi e, per loro tramite, all’economia nazionale, sia essa riferita al sistema produttivo o a quello del trasporto pubblico di persone, a lunga percorrenza o locale.
La remunerazione del capitale per gli azionisti verrebbe invece a costituire una componente aggiuntiva nel prezzo della traccia e delle tariffe di accesso all’infrastruttura, peggiorando la competitività della ferrovia, con due possibili risultati ugualmente dannosi. Uno è il calo dei volumi di traffico, e quindi (oltre alle implicazioni negative sul mancato obiettivo di riduzione delle emissioni inquinanti e di traffico sulle strade) la diminuzione dell’utile in termini assoluti per gli azionisti, che avrebbero fatto così un cattivo affare. L’altro è la compensazione del maggior costo con maggiori incentivi o ricoperture in denaro da parte dello Stato, ad esempio per i servizi di TPL, denaro che verrebbe travasato nei dividendi da pagare ai privati possessori di quote di FSI.
A peggiorare la situazione, va considerato che nel calcolo di bilancio dei costi della Rete ferroviaria si è attuata la sterilizzazione degli ammortamenti, un elemento che è ostativo alla trasformazione della Società in un soggetto quotato in Borsa, e che se venisse soppressa obbligherebbe RFI ad un ulteriore, forte aumento del costo del “pedaggio” per l’accesso alla rete, provocando l’immediato collasso della capacità del vettore ferroviario di reggere il mercato dei trasporti.
D’altra parte, è proprio il patrimonio costituito dalla Rete che porrebbe sul mercato un asset di valore estremamente elevato, ma di remunerazione sostanzialmente molto bassa, poco appetibile e in definitiva penalizzante per il piazzamento dello stesso complesso delle altre attività del Gruppo FSI. Probabilmente si potrebbe ricavare di più, in termini monetari, vendendo “di meno”, ovvero solo quelle Società realmente coerenti con gli obiettivi del mercato azionario.
Perciò anche restando entro una visione economica, ma con un po’ di lungimiranza, la separazione fra rete e servizi appare non solo consigliabile, ma necessaria.
Senza dimenticare le implicazioni etiche e politiche sull’effettiva apertura competitiva nel sistema ferroviario, che il modello di Holding integrata non è in grado di assicurare, neppure con l’eventuale separazione contabile assoluta.
Se è vero che l'obbligo di tenere distinti i conti economici e di evidenziare i flussi finanziari delle diverse Società dovrebbe impedire di trasferire le quote di contributi pubblici ed i proventi del Gestore dell'Infrastruttura (versati fra l’altro dalle Imprese Ferroviarie concorrenti) verso i bilanci delle Società che operano sul mercato libero e quindi garantire una più corretta ed equa competizione fra gli operatori, è altrettanto vero che permane una sovrapposizione a livello di politica aziendale fra il padrone del campo di gioco e una parte dei giocatori.
Infatti nulla impedisce che le scelte relative alle priorità di sviluppo della Rete, agli interventi di manutenzione, al modo in cui le regole di accesso alla Rete possono essere definite, obbediscano a una logica dettata da una visione che privilegia - comprensibile, ma non eticamente corretto - il piano industriale della Holding stessa; soprattutto dove, come in Italia, stenta ad affermarsi una capacità politica dello Stato di dare chiari indirizzi di interesse generale per lo sviluppo del settore nel suo insieme.
La condivisione dei sistemi informatici, inoltre, può aprire la strada a violazioni del segreto sulle attività dei concorrenti che devono fornire i dati dei loro traffici al Gestore della Rete (pratiche illegali, ma fattibili come dimostrato dalla condanna di SNCF, le Ferrovie francesi, nel 2013).
È evidente che il mantenimento di una struttura integrata favorisce le Imprese Ferroviarie incumbent, ex-monopoliste statali, che per dimensione, capacità economica e contiguità con il Gestore si trovano innegabilmente in una situazione di privilegio rispetto agli operatori realmente privati ai quali si dovrebbe invece aprire il libero mercato.
Con la separazione, invece, i tecnici di RFI sarebbero certamente in grado di attuare in modo indipendente e non discriminatorio le chiare linee guida dettate da un Governo consapevole, al minor costo ed a tutto vantaggio della crescita del trasporto su ferro in Italia.