di Emanuele Capra*
*Emanuele Capra è un consulente d’azienda, esperto in Risk Management, Business Continuity ed operational resilience. Si occupa delle politiche di gestione dei rischi, dello sviluppo di piani di continuità operativa e Disaster Recovery (ISO 22301 e ISO 27000) e, più in generale, della gestione delle emergenze in differenti settori (IT, security, produzione, Supply Chain, assicurazioni, ecc.).
Nel marzo 2011, un potente terremoto e uno tsunami hanno colpito il Giappone. Molti fornitori di Toyota si trovavano nelle zone colpite e non sono stati in grado di fornire i volumi di componenti previsti.
Le linee di produzione della grande casa automobilistica si sono fermate e ci sono voluti più di sei mesi per recuperare. La stessa cosa è successa nel nostro Paese dopo il terremoto dell’Emilia Romagna. Alcuni distretti industriali, come quello bio-medicale della zona di Carpi, hanno subito importanti rallentamenti produttivi perché tutta la loro supply chain, che si concentrava in un’area geografica molto limitata, era fortemente influenzata dagli effetti del sisma.
Pur non essendo delle stesse dimensioni di Toyota, anche la vostra azienda, per continuare ad operare, deve comunque fare affidamento su produttori, venditori e altre imprese. Anche ipotizzando che siate stati propositivi e abbiate preparato il vostro piano di continuità operativa, sarete ancora a rischio se i vostri fornitori non l’avranno fatto a loro volta. Ma che cos’è la “Business Continuity”? La gestione della continuità operativa aziendale consiste in una procedura pianificata e organizzata per aumentare la resilienza dei processi produttivi più critici di un’organizzazione, reagendo in modo appropriato agli eventi che possono generare danni e consentendo la ripresa delle attività principali il più rapidamente possibile. Obiettivo di questa metodologia è quindi garantire che i processi aziendali più importanti siano interrotti solo temporaneamente o meglio non si arrestino del tutto, anche in situazioni critiche, per assicurare la sopravvivenza economica dell’organizzazione.
Oggi tutti - dal Segretario delle Nazioni Unite Ban Ki-moon alla Protezione Civile, dagli psicologi ai consigli d’amministrazione delle aziende - parlano di resilienza.
Ma che cosa significa esattamente? In origine, Il termine “resilienza” è stato utilizzato nella metallurgia: indica la capacità di un metallo di resistere alle forze che vi vengono applicate. Pensate all’acciaio armonico: per un metallo la resilienza rappresenta il contrario della fragilità. Etimologicamente deriva dal latino resalio che significa saltare, rimbalzare. Qualcuno propone un collegamento suggestivo tra il significato originario di resalio, che connotava anche il gesto di risalire sull’imbarcazione capovolta dalla forza del mare e l’attuale utilizzo in campo psicologico dove indica l’atteggiamento di andare avanti senza arrendersi, nonostante le difficoltà. Pensate ad un pilota come Andrea Zanardi che, dopo aver perso le gambe, vince due medaglie d’oro alle olimpiadi di Londra oppure ad un malato di cancro che guarisce dopo aver subito la chemioterapia: una persona resiliente è l’opposto di una facilmente vulnerabile.
Nel 2009, questo termine è stato adottato dalle Nazioni Unite nell’ambito della Protezione Civile e penso che la seguente definizione, successivamente declinata da altri enti, si adatti molto bene anche all’ambito aziendale: “La resilienza è l’abilità di un sistema, organizzazione o comunità di impedire o ritardare il passaggio da uno stato di crisi a uno di emergenza, assorbendo i fattori perturbanti e invasivi, esterni o interni, previsti o imprevisti, reagendo e adattando la risposta della propria struttura per superare l’evento avverso, ristabilendo un nuovo equilibrio, anche attraverso la salvaguardia delle funzioni e delle strutture essenziali”. Pensate a un’azienda che ricostruisca un capannone distrutto da un incendio oppure alla riedificazione di una città come L’Aquila dopo il terremoto. Tutti questi soggetti hanno superato l’evento critico che li ha colpiti ma non saranno più gli stessi di prima. La persona vivrà la vita in modo differente, il capannone ricostruito porterà l’azienda a operare diversamente e la città avrà dovuto edificare un nuovo centro, visto che quello storico non è più recuperabile. Ma che cosa li accomuna tutti? Aver mantenuto il proprio senso di padronanza ed essere diventati attivi e protagonisti. Ecco perché anche in azienda sottolineiamo l’importanza di adottare un atteggiamento mentale resiliente.
Tenendo a mente questi concetti, torniamo ora a parlare delle aziende e della loro supply chain. Nell’economia volatile e interdipendente di oggi, anche le imprese più organizzate e preparate possono essere colpite da eventi che sono al di là del loro controllo o che sono il risultato di piani e programmi che non hanno funzionato come si aspettavano. Si, succede anche ai migliori e gli effetti sono spesso molto negativi. Pensate a quando, nel 2013, tutti i servizi di Google sono stati offline per soli quattro minuti: il traffico mondiale su internet è diminuito del 40%. Nello stesso anno anche Facebook ha subito vari blackout. Non sarebbe stato poi così grave se non fosse successo proprio nel periodo in cui l’azienda stava per essere quotata in borsa, con un pessimo effetto sul valore delle sue azioni. Ma senza andare troppo lontano, quest’anno Maserati ha subito un blocco totale della produzione per ritardata fornitura di un sub-sub-fornitore. Questo ha causato una settimana di ritardi, 11 turni di lavoro saltati e 700 vetture non costruite con le mancate vendite conseguenti.
Non tutti si rendono conto che la supply chain di un azienda è molto più “estesa” di quanto si pensi e dipende quasi interamente dai terzi: non solo per la fornitura di beni materiali ma anche per le relazioni tra i governi, per le normative, per la formazione, per i servizi, i trasporti e la logistica. La dipendenza economica di un business dai fornitori è sempre più alta: materie prime, componenti, servizi e forniture indirette pensano per il 50/60% dei profitti (ma in alcuni casi fino al 90%).
La pressione economica è inesorabile e forza le aziende ad aumentare la varietà dei prodotti e dei servizi da offrire ai clienti ma, allo stesso tempo, a ridurre i costi. Più la supply chain diventa estesa più il sistema diventa intrinsecamente instabile. Si può quindi dire che se da un lato è stato dimostrato il vantaggio economico generato da una catena di approvvigionamenti internazionale, dall’altro il rischio connesso a tale scelta può essere sostanziale e spesso viene ampiamente sottovalutato. Queste preoccupazioni trovano conferma anche nell’ultimo rapporto del Business Continuity Institute (BCI) che pone il blocco di un fornitore al terzo posto tra le più probabili cause d’interruzione della supply chain, subito dietro agli attacchi cyber e ai problemi dei sistemi informativi.
Come fa un’azienda a gestire la vulnerabilità associata a questa crescente complessità? Come può avere una supply chain più resiliente? Uno degli aspetti più importanti su cui lavorare è certamente la mitigazione dei rischi. L’azienda deve analizzare la propria catena di approvvigionamenti in modo strutturato per poter identificare i rischi in termini di entità, costo, durata e possibile attività di ripristino. Questa analisi permetterà di identificare un costo associato a ciascun rischio (senza considerare la probabilità che si verifichi che per definizione è bassa). Sulla base di tali stime, l’azienda dovrà valutare le possibili attività di mitigazione e i relativi costi. Questo processo di analisi innescherà un circolo virtuoso perché la sola scoperta (consapevolezza) di rischi prima sconosciuti è di grande valore e permette all’azienda di renderli più prevedibili di quanto erano all’origine. Inoltre, le azioni di mitigazione tendono a convergere per rischi differenti, cosicché una sola iniziativa potrà contribuire a ridimensionare molti problemi. Il costo di tali misure è spesso molto basso e certamente poco significativo rispetto agli effetti economici negativi degli eventi che si potrebbero verificare.
Il caso Toyota
Riprendiamo ora il caso iniziale per vedere come Toyota ha ridotto il tempo di ripristino della propria supply chain da sei mesi a due settimane e cosa possiamo imparare.
1. Ha standardizzato alcuni componenti, condividendoli con altre case automobilistiche. Questo ha consentito di utilizzare prodotti che possono essere costruiti in molti luoghi diversi. La lezione: non bisogna rimanere legati ad un unico fornitore. È necessario progettare ridondanze nel sistema e sapere sempre dove trovare i possibili backup.
2. Ha chiesto ai fornitori di mantenere qualche mese in più di stock dei componenti speciali che non possono essere realizzati in più sedi.
La lezione: quando le ridondanze non sono un’opzione occorre assicurarsi che i fornitori siano preparati allo scenario peggiore. Supponendo che un disastro sia in arrivo, si possono intraprendere semplici passi per predisporre una soluzione tampone e ridurre i tempi di inattività.
3. Ha anche fatto dei cambiamenti organizzativi per aumentare l’autonomia negli approvvigionamenti di ciascuna delle aree operative continentali. Ciò significa che un impianto di assemblaggio in Nord America utilizzerà fornitori nordamericani, mitigando gli effetti di un altro possibile disastro in Giappone o altrove. La lezione: non mettere tutte le uova nello stesso paniere. Occorre variare i fornitori per area geografica in modo che, se uno non è disponibile, gli altri siano in grado di compensare la perdita.
Certo, ogni azienda ha le sue particolarità e vive in un contesto differente, ma resta il fatto che un’interruzione parziale o totale delle forniture potrebbe comunque paralizzarne le attività produttive. È quindi molto importante che ogni impresa adotti misure preventive e verifichi che i fornitori abbiano predisposto un proprio piano di continuità operativa. Attenzione: solo perché un fornitore dichiara di avere un piano di continuità, non significa che sia davvero efficace. Dovete verificare. In seguito, potrete prendere spunto dai cambiamenti attuati da Toyota per valutare in quale altro modo sia possibile migliorare la distribuzione, le scorte e i tempi di reazione dei vostri fornitori. La capacità di ripristino diventerà così una competenza importante della vostra azienda da estendere a tutta la catena di approvvigionamento e la velocità di ripristino si trasformerà in un vantaggio competitivo. Una volta gli inglesi dicevano: “Expect the unexpected”. Oggi occorre dire: “Anticipate the unexpected”!